La toma piemontese Dop una volta era il formaggio dei poveri. Sostituiva il sale e si è diffusa così rapidamente da essere prodotta anche in pianura.
Oggi è un orgoglio regionale che guarda anche all’estero, con un export che, dopo una lieve flessione negli ultimi anni, ha ripreso a crescere.
Tenera o semidura, talvolta frutto di un mix tra latte vaccino e caprino, la “tuma” attira sempre più estimatori.
La storia della toma piemontese DOP:
All’epoca dei romani la toma piemontese era già in auge fino a diventare, intorno all’anno 1000, un alimento in grado di sostituire il carissimo sale. Era anche alla base del “pastus”, il cibo distribuito ai meno abbienti.
È la stagionatura che, come ha attestato già Pantaleone da Confienza nel suo “Summa Lacticinorum” rende il sapore pungente adatto alla fascia di popolazione più povera. In primis perché essendo un formaggio salato ne venivano consumate piccole quantità per volta e poi perché in grado di sostituire altre costosissime spezie.
Con il passare degli anni la toma piemontese è diventata d’uso comune in tutte le classi sociali, tanto che alla fine del Seicento le più rigide regole religiose ne proibivano il consumo durante alcuni giorni.
La diffusione della toma sul territorio è dovuta all’attività dei pastori torinesi, che hanno reso possibile la sua creazione non più solo in montagna, come una volta, ma anche in pianura.
La produzione della toma piemontese DOP:
Il formaggio toma piemontese Dop è il frutto dell’impegno di generazioni di pastori piemontesi che, praticando la transumanza, hanno cominciato a creare questo particolare derivato anche in pianura, quando l’inverno riportava tutti nel fondovalle.
Questi spostamenti hanno contribuito a diffondere la fama della toma e diverse tecniche di produzione, a seconda dei luoghi e dei tempi in cui si affermava.
Da quando nel 1996 ha ricevuto il marchio Denominazione di Origine Protetta, gli standard qualitativi riconoscono due tipologie: a pasta morbida, quindi con latte intero a riposo per massimo dodici ore, e a pasta semidura, con latte parzialmente scremato a riposo per massimo ventiquattro ore.
È poi con il calore che avviene la coagulazione, la magia che dà origine al nome (in piemontese il termine toma indicava proprio la coagulazione).
Il latte è quello delle razze caprine e vaccine autoctone e la stagionatura tradizionalmente avviene in grotte o cantine in cui le forme sono lasciate a riposare per quindici giorni in caso siano piccole, e fino sessanta giorni se pesano più di sei chili.
Territorio:
Tra le tome più conosciute troviamo quelle di Lanzo, Susa e Biella ma sono moltissimi i comuni montani e a fondovalle in tutte le province affezionati alla formaggio di una volta. Basti considerare che circa il 40% del Piemonte è occupato dalle montagne: abbracciata su tre lati, la regione è perfetta per ospitare allevamenti e caseifici che per giunta, grazie all’intuizione dei pastori piemontesi, ora si trovano anche in collina e pianura.
Il Piemonte è anche una delle regioni italiane con più copertura idrica, con un reticolato di fiumi che garantisce riserve abbondanti.
La tecnologia poi ha permesso di sostituire le vecchie grotte per la stagionatura con locali controllati in grado di riprodurre le stesse condizioni di temperatura e umidità che avevano i vecchi nascondigli in montagna.
Perché sia Dop però, il formaggio piemontese toma deve essere prodotta in tutti i Comuni delle province di Novara, Vercelli, Biella, Torino e Cuneo e poi ad Acqui Terme, Bistagno, Denice, Terzo e Ponti in provincia di Alessandria e Monastero Bormida, Monbaldone, Olmo Gentile, Roccaverano e Serole in provincia di Asti.
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